Attraversare confini culturali e geografici ha reso Elisa Wong un’artista capace di interpretare con autenticità e profondità personaggi complessi. Nata a Pechino, cresciuta tra Changchun, Lima e Roma, porta con sé una visione del mondo stratificata, che arricchisce il suo approccio alla recitazione. Dai primi passi nel cinema con Una Famiglia, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, fino ai recenti ruoli televisivi in Doc – Nelle tue mani e Gangs of Milano – Le nuove storie del blocco, la sua carriera è stata una continua esplorazione di storie, linguaggi e generi diversi.
Nel 2025 sarà protagonista di due progetti significativi: il crime drama Gangs of Milano, dove interpreta Yiru in un episodio che ha già aperto il Noir in Festival con il suo director’s cut, e La città proibita, il nuovo film di Gabriele Mainetti, in cui veste i panni della madre della protagonista, in una vicenda segnata dalla politica del figlio unico in Cina.
In questa intervista, Wong racconta il suo percorso, le sfide artistiche e le ambizioni future, tra desiderio di sperimentazione e responsabilità nel dare voce a nuove narrazioni nel panorama audiovisivo italiano.

«Essere cresciuta in città così diverse mi ha dato la possibilità di vedere il mondo da più prospettive»
Hai vissuto in diverse città tra Pechino, Changchun, Lima e Roma. In che modo questa multiculturalità ha influenzato la tua visione del mondo e la tua recitazione?
Essere cresciuta in città così diverse mi ha dato la possibilità di vedere il mondo da più prospettive. Ogni nuovo ambiente, con la propria cultura e le proprie tradizioni, ha arricchito di volta in volta il mio bagaglio culturale, in primis come persona, e poi anche come artista. Questo mi ha aiutato ad adattarmi velocemente a nuovi ambienti e a sviluppare una maggiore sensibilità e interesse nell’ascolto delle storie che ognuno di noi ha da raccontare, entrando in empatia con una varietà di situazioni ed esperienze umane, elementi che cerco di portare nel mio lavoro, rendendo l’interpretazione il più autentico possibile alla vita fuori dallo schermo.
Hai esordito nel cinema con Una Famiglia al Festival di Venezia e da allora hai costruito una carriera solida tra serie TV e cinema. C’è stato un ruolo che consideri una svolta per te?
Ogni ruolo ha avuto un’importanza in maniera diversa. In Una famiglia, la mia primissima esperienza, è stato come piantare il primo seme: ricordo ancora ciò che mi disse Sebastiano, il regista, a fine set, e credo quella frase mi abbia dato una prima spinta a considerare questa carriera, ai tempi avevo appena iniziato l’università e facevo tutt’altro. Con Zero, invece, ho trovato la speranza che anche noi, delle comunità meno rappresentate, possiamo trovare voce nel panorama televisivo italiano, così come anche in Love Club! In POV 2 – I primi anni, ho riscoperto quella fiamma giovanile di inseguire i propri sogni con ogni respiro del proprio corpo, ma allo stesso tempo la leggerezza e spensieratezza dell’adolescenza. Con DOC – Nelle tue mani, ho avuto il privilegio di interpretare Lin Wang, una ragazza di seconda generazione che lotta per realizzare il suo più grande sogno. Per cui, alla fine, ogni ruolo è stata un po’ una svolta a modo suo.
«Penso che quando si vanno a raccontare storie sincere e vere, gli stereotipi si smontano da soli, si va oltre alla superficialità delle etichette, ed è lì che nasce un dialogo, una curiosità ad esplorare ed imparare qualcosa di nuovo»
Nel 2024 sei entrata nel cast principale di Doc – Nelle tue mani interpretando Lin Wang. Come hai costruito il tuo personaggio e quali sono le sfide di lavorare in un medical drama?
Ho lavorato molto sulla sua profondità emotiva, sul suo background culturale, l’ambiente in cui è cresciuta e il contesto che la definisce. Ho cercato anche nella mia esperienza personale dei punti di similitudine, nelle storie dei miei coetanei di seconda generazione, ma anche in quelle della prima. Lin è un personaggio ricco di complessità, con tante sfaccettature e temi importanti da raccontare, di cui mi stanno molto a cuore. Tra le sfide ci sono sicuramente la preparazione tecnica, il realismo di un vero ospedale e la terminologia specifica. Grazie alla produzione siamo stati entrati dentro i reparti a conoscere più da vicino la realtà dell’ospedale e tutte le sue varie dinamiche interne, ascoltando anche la testimonianza dei veri specializzandi e il loro rapporto sia con il paziente che con i tutor, colleghi e primario.
Negli ultimi anni hai partecipato a progetti che hanno dato maggiore visibilità a personaggi di origine asiatica in Italia. Senti una responsabilità nel rappresentare questa realtà?
Assolutamente sì. Penso che quando si vanno a raccontare storie sincere e vere, gli stereotipi si smontano da soli, si va oltre alla superficialità delle etichette, ed è lì che nasce un dialogo, una curiosità ad esplorare ed imparare qualcosa di nuovo. Credo che la vera rappresentanza emerga proprio da questo: raccontare storie reali, dove il pubblico non può fare a meno di riconoscersi nella stessa umanità, varietà e complessità.
Parliamo di Gangs of Milano – Le nuove storie del blocco, in uscita nel 2025. Il tuo episodio Bèn Dàn, con Salmo, ha aperto il Noir in Festival. Cosa puoi dirci del tuo personaggio e delle tematiche affrontate?
Nel director’s cut di Bèn Dàn, presentato al Festival in Noir, ci si sente subito catapultati in uno spin-off del mondo di Gangs of Milano, dove tono, colori e suoni cambiano nettamente rispetto agli altri episodi. Yiru è un personaggio complesso e tormentato, rappresenta un po’ la resiliente lotta tra la speranza e i mille ostacoli della vita, spesso apparentemente insormontabili. Vive insieme al marito nel blocco cinese, e a causa del suo coinvolgimento nel giro malavitoso, accumulano sempre più debiti, e lei, consapevole di tutto questo, si sente sempre più intrappolata in una spirale di insoddisfazione, sofferenza e infelicità. Nonostante questo conflitto interiore, è una donna molto forte e anche determinata. Raggiungerà il suo obiettivo e nel cammino, avrà la fortuna di riscoprire quel sentimento di amore che credeva ormai perduto, per cui la sua forza non è solo nella sua resilienza, ma anche nella capacità di evolversi, ritrovare la speranza, anche quando sembra tutto perduto.
«Gangs of Milano è stata una bellissima tavola rotonda creativa, che mi ha permesso di imparare molto e mettermi alla prova»
Hai lavorato in tanti generi diversi, ma Gangs of Milano ha un’atmosfera molto cruda e urbana. Come ti sei preparata per questo ruolo?
Insieme a Fabrizia Mutti, l’acting coach, abbiamo ricostruito quella che avrebbe potuto essere la vera storia del personaggio, poi sono andata a cercare e osservare situazioni reali che potessero rispecchiare la realtà di Yiru. Con Salmo, invece, ci siamo incontrati più volte per sviluppare un linguaggio comune non verbale, visto che i nostri personaggi non parlano la stessa lingua. Con il regista, Ciro Visco, abbiamo avuto modo di scambiarci idee ed opinioni, confrontandoci su come lui avesse immaginato il personaggio e le diverse reference che aveva in mente. È stata una bellissima tavola rotonda creativa, che mi ha permesso di imparare molto e mettermi alla prova.
Il 13 marzo è uscito al cinema La città proibita di Gabriele Mainetti, in cui interpreti la giovane mamma della protagonista. Cosa puoi raccontarci di questa storia e del tuo personaggio?
La mia mamma è, come ogni vera madre, una figura che cerca di fare del suo meglio, nonostante le proprie scelte che possono essere percepite come sbagliate. Il mio personaggio è una madre che ha violato la politica del figlio unico in Cina, durante gli anni in cui era in vigore, condannando così la seconda genita a vivere nell’ombra. Questo ha scatenato una serie di eventi a cascata per cui portano Mei, la protagonista a venire in Italia. Con Mei, ho un legame profondo, come quello che ogni madre condivide con la propria figlia, e la canzoncina che le canta nel flashback è un elemento chiave nei ricordi di Mei che ritorna in una delle sue scene più dolorose. E’ un film italiano che merita di essere visto al cinema, soprattutto anche per come viene rappresentata Roma, in tutte le sue sfumature e diversità, davvero un bellissimo lavoro.

«Mi piacerebbe molto cimentarmi in ruoli “cattivi”, in dinamiche in cui i personaggi sono più complessi e imprevedibili»
Mainetti è noto per il suo cinema visionario e d’autore. Com’è stato lavorare con lui e in cosa questa esperienza ha differito rispetto ai tuoi lavori precedenti?
Lavorare con Gabriele Mainetti è stata un’esperienza molto stimolante, nuova anche perché lavorare con i bambini così piccoli non è affatto facile come può sembrare. Si sa, Gabriele è un visionario e riesce a portare sul grande schermo qualcosa di unico facendolo proprio a Roma, sa valorizzare e raccontare ogni dettaglio, sfumatura emotiva con l’azione il movimento in modo così fluido. E’ stato davvero un grande privilegio far parte di un progetto così grande e così bello.
Dopo esperienze in TV, cinema d’autore e serie crime, quali generi o ruoli ti piacerebbe esplorare in futuro?
Mi piacerebbe molto cimentarmi in ruoli “cattivi”, in dinamiche in cui i personaggi sono più complessi e imprevedibili. Da grande fan del thriller psicologico mi piacerebbe molto lavorare in questo genere, ma sono anche curiosa di esplorare personaggi più leggeri e comici, magari una commedia romantica a tema natalizio! Ogni nuovo progetto è un’opportunità di crescita, e sono sempre aperta a nuove sfide. Chissà, magari in futuro anche un’action in cui devo combattere!