A soli 21 anni, Francesco Cavestri è già una delle voci più interessanti della nuova scena jazz italiana. Pianista, compositore e sperimentatore, ha costruito un linguaggio personale che affonda le radici nel jazz ma si nutre di contaminazioni elettroniche, hip hop e pop. Il suo nuovo progetto, IKI – Bellezza Ispiratrice, è un viaggio sonoro che intreccia suggestioni filosofiche giapponesi, collaborazioni eccellenti (da Paolo Fresu a Cleon Edwards) e un’idea di musica libera, aperta, in costante evoluzione. In occasione dell’uscita del singolo Entropia in collaborazione con Willie Peyote, lo abbiamo intervistato per capire meglio la sua visione artistica, il suo metodo di lavoro e cosa significa oggi, per un giovane musicista, parlare jazz nel linguaggio della contemporaneità.

«Il fulcro è sempre lì: semplicità ed essenzialità della melodia che va ad interagire con arrangiamenti e movimenti armonici raffinati, provenienti dal mondo del jazz che studio e amo»
Entropia è un brano che unisce jazz, hip hop ed elettronica. Com’è nata la collaborazione con Willie Peyote e cosa volevate trasmettere con questo pezzo?
La collaborazione con Willie nasce al Time in Jazz, uno storico festival di rilievo internazionale, diretto da Paolo Fresu, che si tiene annualmente in Sardegna. Io ero lì per un concerto di presentazione del mio primo album, mentre Willie si trovava lì per un’ospitata. Ci ritrovammo a pranzo insieme e io gli chiesi: «cosa ci fai qui?» Lui mi rispose che era lì perchè l’hip hop (il genere che lo ha consacrato come una delle personalità musicali più autorevoli del nostro paese) deve tantissimo delle sue origini al jazz.
Credendo io moltissimo nell’impatto che il jazz ha avuto nella nascita e nello sviluppo di generi contemporanei come l’hip hop e l’elettronica, sono rimasto molto colpito da questa sua consapevolezza, una forma quasi di gratitudine che lui ha nei confronti del jazz. Nel tempo abbiamo continuato a sentirci, e l’occasione di lavorare insieme c’è stata quando JazzMi mi propose di tenere un concerto nel Teatro della Triennale di Milano il 31 ottobre 2024 coinvolgendo un ospite appartenente al mondo pop/rap/cantautorale. Il mio pensiero a quel punto è andato immediatamente a Willie, che ha risposto entusiasta. Per quella occasione ho scritto l’inedito che abbiamo presentato in concerto insieme i Entropia che è poi uscito il 21 gennaio 2025 pubblicato da Universal. Con questo brano volevamo sicuramente trasmettere la naturalezza, la semplicità e l’immediatezza con cui il jazz può incontrare generi in apparenza distanti come il pop, l’r&b, il rap e l’elettronica, tutti linguaggi musicali che nel brano si mescolano e dialogano insieme. Entropia, che significa caos, disordine, vuole provocatoriamente invogliare l’ascoltatore a “concedersi” a questo caos di generi che si rincorrono e si distinguono, per trovare una forma musicale nuova, inedita, innovativa.
Il brano presenta un ritornello molto “catchy”, orecchiabile, intorno a cui si sviluppa il fraseggio del pianoforte (registrato da me presso Steinway & Sons Italia) che è una sorta di controcanto alla melodia vocale. Il mondo musicale è quello del jazz contemporaneo, che raggiunge il suo culmine nel finale strumentale in cui il solo di pianoforte naviga tra gli strumenti dell’arrangiamento (archi, fiati, sintetizzatori, suoni modulari). Il fulcro è sempre lì: semplicità ed essenzialità della melodia che va ad interagire con arrangiamenti e movimenti armonici raffinati, provenienti dal mondo del jazz che studio e amo.

«IKI rappresenta l’ideale di ricerca estetica appassionata e interminabile della mia musica, che io vedo come in costante evoluzione»
Il tuo nuovo album, IKI – Bellezza Ispiratrice, si ispira alla filosofia giapponese dell’IKI. In che modo questa concezione ha influenzato il tuo approccio alla musica e alla composizione?
IKI è un termine della filosofia giapponese, intraducibile con un termine in italiano, che indica una “ricerca estetica appassionata e costante”. Nel senso stretto dell’IKI, questa ricerca rappresenta la pulsione di seduzione che l’uomo ha verso la Geisha, ma in senso lato rappresenta qualsiasi tensione emotiva che un essere umano ha verso un ideale estetico, artistico, creativo. Nel mio caso quindi, IKI rappresenta l’ideale di ricerca estetica appassionata e interminabile della mia musica, che io vedo come in costante evoluzione (ogni mio progetto musicale ha sonorità e caratteristiche anche molto diverse dal precedente) e proiettata alla scoperta di un suono innovativo, che possa incontrare mondi non solo musicali diversi tra loro, ma anche artistici, come ad esempio il cinema: è il caso di Distaccati, la prima traccia dell’album che è un brano elettronico costruito intorno al monologo di Steiner tratto da La Dolce Vita di Federico Fellini.
Nel disco collabori con artisti di fama come Paolo Fresu e Cleon Edwards. Come sono nate queste collaborazioni e cosa hanno aggiunto al tuo sound?
Paolo Fresu lo avevo conosciuto nel 2022 grazie a un progetto organizzato dall’associazione Il Jazz Va a Scuola e il Conservatorio di Bologna (io ero stato coinvolto dal mio Professore e Mentore Teo Ciavarella). Paolo apprezzò moltissimo il mio primo album e da lì nacque un rapporto di profonda stima personale e professionale: dagli inviti al suo festival Time in Jazz, fino alla collaborazione nel brano IKI – Bellezza Ispiratrice che ha dato il titolo al mio secondo album, lavorare al fianco di Paolo Fresu è sempre un’opportunità straordinaria di crescita artistica. Gli sono molto grato.
Clean Edwards l’ho incontrato a Bologna, in un locale che per me è molto speciale perché è dove ho mosso i miei primi passi dal vivo: il Bravo Caffè. Sono andato a parlarci dopo il concerto insieme al grande pianista, compianto, Shaun Martin, ed è immediatamente nata una forte complicità. Quando ho arrangiato Naima / Everything In Its Right Place (in cui ho unito insieme un brano di John Coltrane con uno dei Radiohead) ho pensato immediatamente a lui perché ero sicuro che il suo tocco e la sua sensibilità avrebbe dato un quid in più al brano. Ha accettato con entusiasmo, ed è stata la mia prima collaborazione discografica con un artista oltreoceano.

«[…] Interfacciarsi e contaminarsi con questi generi significa dunque onorare al meglio il significato essenziale del jazz, come genere che studia il passato e guarda il presente»
Nel tuo percorso musicale il jazz si è sempre intrecciato con generi come hip hop ed elettronica. Pensi che questa contaminazione sia il futuro del jazz?
Ne sono convinto. Il jazz fin dalle sue origini vive e raccoglie influenze da ciò che è più in voga nel presente per poi reinterpretarlo e reinventarlo integrandovi le proprie forme interpretative che lo caratterizzano (le improvvisazioni, le armonie raffinate, i ritmi sincopati e dispari, le blue notes, ecc…).
My funny valentine”, “All the Things You Are, My Favorite Things e tantissimi altri brani divenuti standard jazz, erano in origine brani di Broadway, del musical. I più grandi jazzisti della storia (da Charlie Parker a Coltrane, da Miles Davis a Chet Baker) li hanno ripresi e ne hanno creato delle versioni indimenticabili. Il musical era la forma musicale più in voga dell’epoca, come oggi lo sono il pop, la musica elettronica, l’hip hop. Interfacciarsi e contaminarsi con questi generi significa dunque onorare al meglio il significato essenziale del jazz, come genere che studia il passato e guarda il presente per essere costantemente proiettato verso il futuro.
Hai studiato al Berklee College of Music e ti sei esibito tra Italia e Stati Uniti. Come queste esperienze hanno influenzato il tuo modo di fare musica?
Le mie esperienze all’estero, soprattutto al Berklee College of Music di Boston e poi anche frequentando la scena jazz newyorkese, mi hanno aiutato a focalizzare a fondo tutto ciò che ho anticipato, ovvero il modo in cui la musica jazz può vivere e nutrirsi di stimoli estremamente contemporanei, senza per questo snaturarsi o tradire la propria natura. Oltreoceano questa visione del jazz come genere meticcio è all’ordine del giorno, grazie anche agli esempi di leggende come Miles Davis e Herbie Hancock (per citare due tra i nomi più blasonati) che fin dagli anni ‘70 hanno lavorato con sintetizzatori e software di musica elettronica, portando queste tecnologie all’interno del mondo del jazz.
Un altro arricchimento notevole derivante dalle esperienze all’estero consiste sicuramente nel conoscere musicisti provenienti da ogni parte del mondo, scambiando stimoli, ascolti e aspetti culturali che poi influenzano inevitabilmente la propria musica. Con alcuni musicisti di Boston abbiamo poi anche fatto dei concerti insieme: io ne ho organizzati in Italia invitandoli e loro hanno fatto lo stesso con me all’estero. Sono state esperienze meravigliose, che mi hanno arricchito molto.

«Non c’è essere umano sensibile all’arte e alla bellezza che non possa essere coinvolto e trascinato dall’ascolto di questo brano»
Oltre alla carriera da musicista, sei anche divulgatore del jazz, portandolo nelle scuole e nei festival. Quanto è importante secondo te far conoscere questa musica alle nuove generazioni?
Grazie per questa domanda, tengo molto al tema della divulgazione e della diffusione tra i giovani e credo sia molto importante, perché la musica jazz, nel senso aperto con cui la intendo e la propongo, è una musica che si presta moltissimo a diventare un punto di riferimento per le giovani generazioni.
Io lo dico sulla base della mia esperienza personale: all’età di 12 anni fui completamente travolto dal tema di So What di Miles Davis. Il brano è di una semplicità ammaliante (è composto da soli due accordi) e il tema è estremamente pop, orecchiabile, immediato, attira subito l’attenzione. Io ne sono rimasto affascinato per l’immediatezza e per la libertà che lo caratterizza (i musicisti per quasi 9 minuti improvvisano su soli due accordi che si ripetono a loop). Non c’è essere umano sensibile all’arte e alla bellezza che non possa essere coinvolto e trascinato dall’ascolto di questo brano, che trovo ad oggi il modo migliore per avvicinarsi a questa musica. Un altro espediente estremamente efficace per raccontare il jazz a un pubblico ampio e ai giovani, secondo me, è quello che consiste nel partire da altre forme musicali (hip hop, musica elettronica, colonne sonore) e raccontare il modo in cui il jazz ha saputo influenzare e arricchire in maniera totale questi generi.
Come dice Herbie Hancock: «il Jazz è il genere che più di tutti ha prestato sè stesso agli altri generi, e ha preso in prestito dagli altri generi»
Le mie lezioni-concerto, intitolate jazz / hip hop – due generi fratelli e jazz ed elettronica – ramificazioni di una musica universale vertono proprio in questa direzione, ovvero raccontare, sia da un punto di vista storico-sociale che artistico-musicale, i rapporti che si instaurano tra il jazz e questi generi di grande influenza nel panorama musicale e artistico del ‘900 e del nuovo millennio. Grazie all’ideazione e alle varie presentazioni che ho tenuto con queste lezioni-concerto (tra le varie cito la Triennale di Milano, la Casa del Jazz di Roma, il Teatro della Sala Paradiso di Bologna), sono stato premiato come giovane divulgatore del jazz italiano all’Auditorium Parco della Musica di Roma in occasione dell’International Jazz Day 2024, al fianco di artisti illustri come Stefano Bollani e Paolo Fresu. Questo riconoscimento è stato una soddisfazione importante, nonché una conferma che è estremamente importante continuare a raccontare il jazz in tutte le sue affascinanti e molteplici sfaccettature.