Al Tropea Film Festival Marcello Fonte, Palma d’oro a Cannes per Dogman di Matteo Garrone, è ospite per tutta la durata di questa seconda edizione del festival.
Nato e cresciuto ad Archi, quartiere di Reggio Calabria, Fonte arriva a Roma nel 1999. Senza nessuna preparazione, decide che vuole fare l’attore. Nel 2018 vince il prestigioso Prix d’interprétation masculine al Festival di Cannes, l’European Film Award e il Nastro d’Argento come miglior attore protagonista. Ha recitato anche in film come L’intrusa (2017), Io sono Tempesta (2018) e Aspromonte – La terra degli ultimi (2019).
In teatro è stato impareggiabile in Famiglia e Destinazione non umana diretto da Valentina Esposito per Fort Apache Teatro, progetto che coinvolge attori professionisti e attori ex detenuti o detenuti in misura alternativa, che hanno intrapreso un percorso di professionalizzazione e inserimento nel sistema dello spettacolo.
A Tropea è a casa, lontano dalle grandi città, dai festival lunapark, dai selfie e dai red carpet. Qui il suo calabrese stretto non suona strano. Chiacchiera con le persone, non con i fan. Lui che lasciò questa terra per Roma senza sapere neanche cosa fosse un curriculum. Lui che mai avrebbe pensato di essere premiato agli Efa, gli oscar europei, come miglior attore.
«Arrivai a Roma nel 1999 – racconta Marcello Fonte in una Tropea che si rilassa dopo l’overtourism agostano – A Roma per lavorare si usa il curriculum e io non sapevo neanche cosa fosse. In Calabria ti presenti e chiedi di poter lavorare. Scrissi un curriculum di quattro pagine raccontando tutti i lavori che avevo fatto e pure come li avevo fatti. Poi aggiunsi: e voglio fare l’attore per dar vita a tutti i personaggi che in me convivono. Lo leggevano e si mettevano a ridere.»
Seguire i discorsi di Marcello Fonte è a volte difficile come addentrarsi nei fitti boschi calabresi, ma perdersi nei suoi racconti pieni di passione è un viaggio alla scoperta di un uomo che ricorda i versi di Rudyard Kipling al figlio, quando gli scrive: “Se riesci a sognare, senza fare del sogno il tuo padrone; Se riesci a confrontarti con Trionfo e Disastro e trattare allo stesso modo questi due impostori”. Perché Marcello ha spesso un pensiero per i giovani, soprattutto dopo essere diventato padre.

«Per me l’attore è una vocazione: deve dare a se stesso e a te, altrimenti non serve a nulla né a sé né a te»
Com’è stato per lei il passaggio a una città come Roma?
Io ho fatto la gavetta, vengo da un mondo antico. Ho avuto la fortuna di incontrare gente che mi ha fatto imparare. Secondo me devi seguire il maestro, cioè chi ti insegna a fare questo mestiere. E lo segui perché ti piace come lo fa. Io ho scelto il mio maestro e il maestro è contento quando l’allievo lo supera.
Ho dormito negli spazi occupati: al Valle occupato, al Nuovo Cinema Palazzo occupato. Al Valle respiravo la polvere del teatro, ogni granello di polvere mi parlava . La mattina mi alzavo e salivo sul palco. Il mio primo maestro fu Danilo Nigrelli. Lì imparai a conoscere tutto del teatro, anche i chiodi. Una volta trovai un chiodo storto e in teatro si dice che porta fortuna. Da ragazzino aiutavo mio padre e lui usava i chiodi per assemblare le lamiere. I chiodi storti li raddrizzavo perché li riusavamo. Quindi, quando trovai quel chiodo, mi sembrò quasi un segno. All’inizio mi vergognavo della mia famiglia, perché era una situazione imbarazzante. Invece quando mi ritrovai al teatro Valle, anche i chiodi erano importanti, ho imparato a non giudicare mai nessuno. Chiunque è importante. Chiunque ha un valore così com’è.
Se dovesse dire ai giovani come si realizza il sogno di lavorare in teatro cosa direbbe loro?
È molto semplice. Gli chiederei: hai da dire qualcosa, qualcosa della tua vita? Allora vai avanti. Se non hai nulla da dire statti zitto. Io faccio l’attore fin quando ho qualcosa da dire; se mi svuoto sto fermo per il tempo che serve. E poi, semmai, riparto dopo, quando mi sono nuovamente riempito. L’attore deve avere qualcosa da dire. Altrimenti è inutile andare a fare un film per fare il burattino. Per me l’attore è una vocazione: deve dare a se stesso e a te, altrimenti non serve a nulla né a sé né a te.
Il lavoro di attore parte dalla conoscenza. Io posso dire una cosa quando la conosco. Se non la conosco dico str***te. Quando dovevo recitare un uomo scalzo dell’Aspromonte, in un film di Mimmo Calopresti, andavo in giro a piedi nudi per imparare cosa si prova. Per me un grande maestro è Stanislavskij, che ho studiato da solo. Ho letto il libro sulla pratica dell’attore, tutte le parole piano piano. Io ho la terza media. Quel libro non l’ho ancora finito… Ma è una cosa mia, personale, che non devo dire a nessuno. Non è detto che devo dire a tutti cosa faccio e come lo faccio: ognuno fa le cose come le sa fare. Io sono
ignorante sulle cose, ma non sono ignorante sulla vita. Io studio la vita e quello che mi ha dato la vita lo metto nella mia recitazione. Noi attori non siamo categorizzabili. Ogni persona è unica.

«Dobbiamo essere bravi a cambiare veleno in medicina… Noi facciamo parte dell’universo, di qualcosa enormemente più grande»
Una cosa che la infastidisce?
Il cellulare. Sta sconvolgendo la società. Sta dando fastidio. È un mezzo che viene usato uno contro l’altro. Foto, riprese, tutto da usare uno contro l’altro. Abbiamo diritto alla nostra libertà. Scattare una foto perché la devono vedere gli altri è sbagliato. Credo che dovremmo tutti fare un passo indietro. Siamo valigie piene che non hanno più spazio: bisogna lasciare spazio per metterci dentro altre cose che la vita ci offre. Viviamo ormai con valigie pesanti che continuiamo a portarci dietro e non ce la facciamo più. Viviamo una vita di merda. Sono arrabbiato perché abbiamo perso il senso della vita. Io non posso
vivere guardando la vita degli altri. Ormai anche per mangiare al ristorante devi avere un cellulare. In compenso facciamo film che nessuno vede. Nessuno sa cosa c’è dietro un film, non si capisce più cos’è la bellezza del cinema, vedere il film sullo schermo grande, andare al cinema e immergersi dentro al film. Dobbiamo essere bravi a cambiare veleno in medicina. Questa è una frase buddista che mi hanno insegnato quando praticavo. Noi facciamo parte dell’universo, di qualcosa enormemente più grande.
Come vive il suo lavoro?
Sento sempre la responsabilità al 100 % qualunque cosa io faccia. Mi chiedo sempre se sto rispettando il mio lavoro, il personaggio che devo fare. Io rispetto tantissimo la comparsa, perché sono stato anch’io una comparsa. È un lavoro difficilissimo e vieni trattato con sufficienza, seduto su un gradino, magari ti danno un cestino con qualcosa da mangiare; devi fare la fila per prendere un abito di scena e ti dicono mettiti qua, mettiti là.
Eppure la comparsa può guardare il set da un punto di vista completamente diverso. Facendo la comparsa ho potuto guardare lavorare Martin Scorsese, Cameron Diaz, Daniel Day-Lewis. Guardavo come lui entrava in scena: e non è imparare quello? Poi però devi fare un’azione, devi provare. Cadi e ti rialzi. In Spiderman prima viene il cuore di una cosa e solo dopo il costume.

Lei ha lavorato con la compagnia Fort Apache Teatro insieme ad altri detenuti del carcere di Rebibbia. Oggi è padre. Le carceri scoppiano di minori che, con il nuovo indirizzo politico, vengono messi dentro per punizione. Il concetto di rieducazione ormai non c’è più. Cosa ne pensa?
Sequestrando una persona non si ottiene nulla. Mettendo in gabbia un ragazzo che delinque, lo si incattivisce ancora di più. Conosco la detenzione non perché sono stato in prigione, ma per esperienza personale, perché per un anno e mezzo sono stato chiuso in una comunità, con ragazzi che avevano commesso vari reati. Chi scippava, chi si buttava dai palazzi, chi menava la polizia… Questa rabbia generale che c’è, secondo me scaturisce da un non ascolto dei genitori per questi figli. I figli si ribellano e per attirare l’attenzione dei genitori fanno cavolate. Lo dico perché sono stato un anno e mezzo in comunità con loro, a soffrire con loro, a pulire con il mocio i bagni e le cucine. Ogni giorno. Con tutta la
severità veramente esagerata che c’era in quella comunità: non si potevano avere relazioni, non si poteva stare giù a parlare, non si poteva stare in gruppo. È una situazione forzata che incattivisce ancora di più i ragazzi invece di comprenderli. I ragazzi delinquono per attirare l’attenzione dei genitori che non hanno. Genitori distratti che danno il cellulare al figlio per avere tempo libero. Se vuoi fare una famiglia, fai una famiglia. Altrimenti non la fai, non fai un figlio e ti diverti.
Cosa le rimane della sua pratica buddista?
Trasformare il veleno in medicina.
Cosa è significato nella sua vita praticare?
Scoprire un altro credo, anche quello autentico come altri. Rispetto i credo di tutti, perché
per me c’è una realtà che è unica. Credere è importante nella vita.
E lei quale veleno ha trasformato in medicina?
La mia vita. Per me il veleno sono i miei sbagli, che ho trasformato in un’occasione per
imparare com’è la vita e per costruire la mia vita.