Matteo Garrone ospite del Tropea Film Festival 2024

Tra gli ospiti della seconda edizione del festival cinematografico di Tropea, Garrone racconta del suo ultimo film "Io capitano" e del suo rapporto con gli attori

Matteo Garrone al Tropea Film Festival e l’occasione persa di rivedere insieme la storica coppia del premiatissimo Dogman. Si potrebbe intitolare così la serata conclusiva della seconda edizione del festival cinematografico di Tropea, dove Matteo Garrone e Marcello Fonte si sono mancati per poche ore.

Ed è in una Tropea che in pochi giorni ha accolto “fabbricanti di sogni” del calibro di Matt Dillon, Mimmo Calopresti, Marcello Fonte, Nunzia Schiano, che incontriamo il regista romano Matteo Garrone, candidato agli Oscar con Io Capitano.

Papà critico teatrale e mamma fotografa, Matteo Garrone nasce respirando teatro e circondato da immagini. E dalle immagini parte per creare i suoi film.
«Mio nonno era un attore e negli anni Quaranta, ha fatto anche un film con De Sica, I bambini
ci guardano – racconta Matteo Garrone – ma sono timido e preferisco stare dietro la macchina da presa. Prima di fare il regista ero pittore: ho fatto il liceo artistico, poi l’accademia. Quando scelgo una storia da raccontare, oltre all’empatia con i personaggi e le tematiche, per me è importante visualizzare la storia attraverso immagini che mi possano sorprendere. E con le quali spero di poter sorprendere lo spettatore. Anche per questo mi diverto a cambiare genere passando da Gomorra a Pinocchio a Io Capitano.
Il cinema è un’arte che è formata da tante altre arti, ma sicuramente è un’arte visiva. Nasce muto, come racconto per immagini. Poi si è legato alla letteratura, alla musica, alla pittura e al teatro. Io ho questa vocazione, mentre ci sono colleghi che nascono dalla scrittura e magari cercano dei personaggi che gli consentano di dire certe battute. Vengo dalla pittura e cerco dei personaggi che mi aiutino a esplorare mondi che posso ricostruire attraverso le immagini.
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Matteo Garrone
Matteo Garrone al Tropea Film Festival

«Io giro in sequenza, dalla scena numero uno alla numero cento, così gli attori possono vivere emotivamente tutto il viaggio del personaggio»

Se Marcello Fonte non fosse dovuto partire stamattina, vi sareste ritrovati qui al Tropea Film Festival. Com’è stato dirigere un attore così genuino?

Marcello è un personaggio straordinario, meraviglioso. Sul set era in grado di fare scene difficilissime e poi c’erano momenti in cui non c’era… e non c’era nessun modo di riuscire ad aiutarlo.
Io giro in sequenza, dalla scena numero uno alla numero cento, così gli attori possono vivere emotivamente tutto il viaggio del personaggio. Addirittura prendo degli aspetti della personalità dell’attore e li metto nella sceneggiatura. Quando stavo lavorando a Dogman, il personaggio doveva avere una grande umanità e, appena ho visto Marcello, ho capito che era l’interprete ideale per il grande cuore che ha.

Alla premiazione a Cannes, Fonte non riusciva a crederci…

La coincidenza è che a consegnare il premio c’era Roberto Benigni, che era stato l’attore a cui avevo dato la sceneggiatura di Dogman quattordici anni prima: l’ho riscritta sette volte in quattordici anni. C’era sempre qualcosa che non riusciva a convincermi. Ero rimasto troppo legato al fatto di cronaca che era successo a Roma e non empatizzavo con quel personaggio. Poi ho capito che dovevo liberarmi dalla cronaca e reinventare un personaggio che potesse essere vicino a me. Uno che non era capace di violenza, di vendetta; anzi, pacifico, che cercava di andare d’accordo con tutti: sia con la società civile che con il mondo criminale. Tanto che poi qualcosa, nella storia, andrà storto.

Ma non riuscivo a sentire vicino un personaggio che torturava per giorni un altro e si vantava della sua vendetta, come nella cronaca. Alcune cose mi attiravano, altre mi allontanavano. Alla fine ho fatto il film in sei settimane mentre aspettavo di iniziare le riprese di Pinocchio. Ed è stato un film fortunato.

«Il consiglio che do ai ragazzi che stanno studiando, è quello di farsi un grande bagaglio di cultura, guardare tantissimo cinema del presente e del passato»

Ai giovani attori che studiano nelle accademie, che vedono attori recitare con e senza
formazione, che consiglio darebbe?

Marcello aveva già fatto altri film pur non venendo da una accademia, però è un attore che ha un bagaglio di formazione che lo rende come i migliori attori che escono dalle scuole.
In Reality c’era Aniello Arena che, un po’ come Marcello, non ha una formazione accademica, però viene dal teatro della compagnia della Fortezza di Volterra. Mio padre era un critico teatrale, quindi la mia formazione è stata molto legata al teatro.
Il consiglio che do ai ragazzi che stanno studiando, è quello di farsi un grande bagaglio di cultura, guardare tantissimo cinema del presente e del passato. Noi italiani abbiamo avuto la fortuna di avere la cinematografia più importante al mondo negli anni 50 e 60, che ha formato, come raccontano loro stessi, tanti grandi registi americani; Scorsese, Spielberg, Coppola, hanno sempre guardato i grandi maestri del cinema italiano e i grandi interpreti.
Molto spesso i giovani non guardano i grandi capolavori del nostro cinema. Se incontrate dei registi, cercate di andare con una preparazione avendo visto i loro film. Scegliete i registi con cui lavorare in base ai film che fanno.
Io consiglio anche di portare avanti un sogno, una passione, ma al contempo avere altri interessi. Non si può stare sempre in attesa delle chiamate, della risposta al provino. Sono tempi morti che fanno male alla psiche. Ci sono tantissimi giovani e non giovani che vogliono fare questo mestiere. I progetti non sono molti e questo vuol dire che dovete avere sia una grande passione che un po’ di fortuna. Però la fortuna è legata anche alla vostra capacità di farvi trovare al momento giusto al posto giusto. E per farlo dovete
conoscere il cinema, gli autori, i registi e capire con chi vi farebbe piacere lavorare.

Matteo Garrone
Matteo Garrone e Matt Dillon

«Credo che sia importante mettere l’attore nella condizione di poter vivere dentro l’attimo e riuscire a portarlo come in una dimensione di trance, per cui non sa neppure lui quello che sta accadendo»

Cosa cerca in un attore?

Innanzitutto l’anima dell’attore, la sua personalità. Poi, venendo dalla pittura, guardo la fisicità, l’espressività. E quando sento che il personaggio si sposa con queste caratteristiche dell’attore, allora è il momento di provare a fare questo viaggio insieme.
Con gli attori ho un rapporto di grande dialogo. Non sono stato attore, non ho una preparazione tecnica, quindi ascolto da loro quello che provano mentre stanno in scena; perché quello che noi scriviamo è un’ipotesi di un viaggio. Ma è l’attore che vive da dentro il personaggio, quindi nessuno meglio di lui ti può dire se quella parte gli risuona dentro oppure se c’è qualcosa da cambiare. Ad esempio, Marcello in Dogman mi ha fatto dei regali meravigliosi: a volte ha inventato mentre stava in scena, ha avuto delle idee, delle intuizioni. Ha questo modo di fare un po’ infantile, quasi come un bambino e i bambini
sono poeti naturali. E Marcello è un poeta naturale. Credo che sia importante mettere l’attore nella condizione di poter vivere dentro l’attimo e riuscire a portarlo come in una dimensione di trance, per cui non sa neppure lui quello che sta accadendo.

E ai giovani registi cosa consiglia, lei che ha fatto un film come Gomorra fuori dalle solite
regole?

Gomorra fu soprattutto profonda incoscienza. Iniziai a lavorare al libro di Saviano quando ancora non era famoso e il libro non era un best-seller. Quando ho lavorato a Gomorra non pensavo che sarebbe stato un film epocale. Ma, soprattutto, che il libro sarebbe diventato un best-seller durante la lavorazione. Con Gomorra ho fatto, come spesso mi capita di fare, tutto quello che non andava fatto.
Medusa bocciò la sceneggiatura perché sosteneva che non c’era un personaggio di riferimento. Sai quelle regole un po’ all’americana? Quelle che bisogna evitare perché sono convenzionali, prevedibili. Dicevano anche che non c’era qualcuno al quale il pubblico poteva affezionarsi. Era un film corale, dove non ci sono eroi ma anti-eroi. È un film sull’infanzia violata, che lo ricollega a certi film che ho fatto dopo, penso anche a Pinocchio. E poi è un film in un dialetto incomprensibile. Invece il film ha tratto forza
proprio da questo dialetto, da queste facce, da questo mondo. Penso ci sia un grande legame tra Gomorra e Io Capitano.

Fuori dalle regole anche con Massimo Ceccherini: per tutti attore comico, per lei sceneggiatore…

Quando scrive, Massimo è in sintonia col pubblico popolare. Io ho un’estrazione più borghese. E non a caso Massimo ha fatto con me due film popolari. Pinocchio, che racconta il mondo contadino, e Io capitano, che racconta la storia di ragazzi immigrati che vengono dal popolo. Quindi nessuno meglio di lui poteva raccontare questi personaggi, anche se apparentemente possono sembrare lontani. Poi lui è toscano, legato a Collodi, ha fatto in teatro Pinocchio in versione comica. Mi ha insegnato tanto perché Massimo ha una grandissima sensibilità e quando scrive è come un bambino, come Marcello. Se in una
scena c’è qualcosa che non è chiaro, di confuso, di troppo cervellotico, lui se ne accorge subito. Pensa che Massimo non ha mai letto un libro, non rilegge la sceneggiatura, quindi a volte si dimentica e gliela devi riraccontare. Però, se scrivendo metti un aggettivo un po’ furbo, che non è vero, se ne accorge subito. Gli devo molto, perché in questi due film mi ha seguito nella fase di scrittura, durante le riprese e al montaggio.