Arriva in sala il 24 settembre al Cinema Farnese di Roma il film Labirinti di Giulio Donato alla presenza del regista.
Labirinti è stato presentato alle Giornate degli Autori durante l’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ed è il primo lungometraggio da regista di Giulio Donato, prodotto da Francesco Cimpanelli per Life Cinema. Girato tra le suggestive montagne calabresi, Labirinti esplora temi universali come l’amicizia, la lotta contro le convenzioni, la difficoltà a manifestare la propria sessualità in determinate realtà sociali.
Giulio Donato, prima del suo esordio dietro la macchina da presa, ha lavorato come aiuto regista con registi come Abel Ferrara, Asia Argento, Mimmo Calopresti. A Venezia ha presentato un film davvero indipendente. Un film che, dice Giulio «è stato come vincere la lotteria».

«Labirinti l’ho fatto in modo puro e coraggioso, ma anche un po’ incosciente. Ho deciso di seguire un moto interior»
Come è nato un progetto così coraggioso, senza finanziamenti, e come sei arrivato a Venezia?
Credo Labirinti nasca dal mio spirito di filmmaker, che è sempre stato in me. Ho fatto tantissime esperienze su set di grandi dimensioni, con grandi autori, ma sentivo che volevo fare qualcosa di simile. L’ho fatto in modo puro e coraggioso, ma anche un po’ incosciente. Ho deciso di seguire un moto interiore. Speravo di finire in un festival così grande, ma era un sogno. La gestazione del progetto, poi, è stata talmente rocambolesca, che quando è successo è stato come arrivare in Champions League con una squadra fatta da amici. Letteralmente. All’inizio eravamo sette ragazzi della mia età, con pochissimi soldi messi da me da parte, tutti non attori; per due anni: giravamo, scrivevamo, montavamo, è stato tutto un crescendo; e poi è successo. Ma non era assolutamente scontato.
Un film che è un incoraggiamento ai giovani…
Il messaggio del film è di trovare quello che hai dentro e fare di tutto per esprimerlo, seguirlo, qualunque sia la strada, senza fermarsi davanti alle difficoltà, cercando solo di affrontarle e superarle. È un film ottimista, incoraggiante. A me è andata bene, ma può accadere a chiunque.

«Secondo me il talento è soggettivo. La bravura è nell’utilizzare la fortuna, cercare le occasioni, stare in moto e non aspettare che la gente venga a bussarti alla porta»
Ma la fortuna senza la bravura funziona poco. Quindi sei bravo?
Secondo me il talento è soggettivo. La bravura è nell’utilizzare la fortuna, cercare le occasioni, stare in moto e non aspettare che la gente venga a bussarti alla porta. Nel mio caso la bravura è stata nell’utilizzare la mia esperienza sui set, dove ho ricoperto tantissimi ruoli prima dell’aiuto regista. Ma era il mio obiettivo da quando ho iniziato a 19 anni. Non ho fatto scuole di cinema perché non mi hanno neanche preso. Credo abbiano contato la determinazione, l’ostinazione e la direzione che ho dato a queste energie.
Il mio primo set fu Incompresa di Asia Argento, che ringrazierò sempre. Mi fece entrare, senza nessun tornaconto, in un ambiente dove è molto difficile entrare, dove spesso la gente si aspetta qualcosa in cambio. Forse Asia ha visto qualcosa in me, mi ha aiutato e mi ha permesso di andarla a trovare sul set. Da lì sono riuscito a fare l’assistente alla regia volontario. Ho fatto di tutto, obbligando l’aiuto del regista a farmi lavorare. Poi, un set dopo l’altro, Asia mi ha presentato ad Abel Ferrara, che è il regista con cui ho lavorato di più.
Non hai fatto nessuna scuola?
Il mio più grande desiderio era entrare al Centro Sperimentale: non ci sono riuscito e ho preso questa strada, di cui sono fierissimo e contentissimo. La fortuna è di essere riuscito a lavorare così tanto fin da giovane e trovare gente che ha creduto in me, come Asia e Abel. Lui mi ha fatto fare il primo film da aiuto regista a 25 anni, un lavoro che si fa dopo tanti anni di esperienza: è stato generoso.
Nella vecchia scuola, tanti registi iniziavano facendo l’assistente regista, l’aiuto regista, poi si è un po’ persa questa tradizione. È diventato difficile arrivare su un set a lavorare, a fare esperienza. Sono stato l’infortunato. I primi due anni portavo i caffè, facevo le fotocopie, per giorni il set non lo vedevo neanche. Mi mettevano al campo base a guardare i camion con le attrezzature. Poi è stata una scalata abbastanza rapida: credo che la mia determinazione sia stata premiata.

«Le scene le abbiamo costruite insieme, provandole e vivendole, facendole accadere davanti a una macchina presa»
Il cinema ha sempre bisogno di storie. Dove hai trovato la tua e come l’hai trasformata in
sceneggiatura?
Ero partito da un’idea: la suggestione di una persona che durante un sogno scopre qualcosa di scomodo su di sé. Ci rimugina e inizia a dialogare con se stesso nel mondo reale. Da qui ho iniziato a pensare al dialogo tra i sogni e il mondo reale, al nostro inconscio che comunica attraverso i sogni nel caso di una persona che ha una difficoltà a guardarsi dentro. Quindi ho pensato: ok, potrebbe essere la storia di un ragazzo che sta cercando qualcosa di se stesso, che scopre qualcosa di se stesso che lo aiuta a maturare.
A questo ho collegato la Calabria, paese d’origine della famiglia di mio padre. E ho girato in un piccolo paese in provincia di Vibo Valenza, dove vado tutte le estati da quando sono piccolo. Mi sembrava il posto perfetto dove ambientare questa storia di emarginazione e di emancipazione. Un paese dove ci sono tanti ragazzi che non finiscono la scuola, che non vanno all’università e dove un libro può davvero essere considerato un libro magico.
Per un film a metà tra finizione e realtà, era il posto perfetto dove ambientare la storia. Ho scritto un canovaccio con delle scene e poi ho lavorato con gli attori, ma anche con i luoghi, con le persone vere. E poi la parte reale, quasi documentaristica, delle scene di massa, delle feste: sono scene vere anche nella recitazione. Gli attori che ho scelto combaciavano con la mia idea di personaggi e ho scritto il testo su di loro e sui loro caratteri. Le scene le abbiamo costruite insieme, provandole e vivendole, facendole accadere davanti a una macchina presa.

Perché hai deciso di avvalerti di attori non attori?
Proprio perché volevo raccontare e calcare la mano sulla differenza tra il mondo reale e il mondo del sogno. Quando racconto il mondo reale ho filmato in modo da far dimenticare allo spettatore di star guardando un film, andando quasi a documentare qualcosa di vero con delle persone vere. Dicevo: “tu Francesco hai questa sofferenza…vivila”. E lui andava in autonomia. Sul copione a volte c’erano le battute, a volte c’era scritto “succede questo”. Poi le cose succedevano.
Torneresti a lavorare per un grande regista?
È qualcosa su cui mi interrogo sempre. Sono determinato, sono pieno di dubbi, di possibilità, di opzioni. Senza alcun dubbio voglio fare il regista, quindi continuerò. Adesso sto lavorando a un corto, ma come producer. Come dicevo all’inizio, stavolta è andata bene, quindi non so se vorrei ritrovarmi nella stessa situazione. Devo trovare il modo di conciliare la necessità di programmare un progetto cinematografico, la mia natura, il mio spirito. In sintesi il giusto equilibrio tra sogno e realtà.
Il tuo è stato un film a basso budget, ma i finanziamenti servono, soprattutto per i nuovi
talenti. Sei d’accordo che alcuni film costano troppo?
Assolutamente sì, però è un discorso complesso. Lavoro da 12 anni sui set e so che significa per le persone non lavorare. Bisogna trovare il modo di far lavorare tutte le persone che hanno una famiglia che vivono di questo da anni. Sicuramente va limitata un certo tipo di produzione o vanno distribuiti meglio i fondi, perché non può venir dato un piccolo budget ogni tanto per le opere prime e finanziare tantissimo film grossi che magari non hanno bisogno di finanziamento. Però è un discorso complicato.
Chi ha aiutato Giulio Donato a portare a termine il film è il produttore Francesco Cimpanelli
Francesco come hai conosciuto Giulio e perché sei entrato nel progetto?
Ho conosciuto Giulio tramite il casting director di Labirinti, Massimo Appolloni, lo stesso di Sorrentino. Ho amato da subito questo lungometraggio che sconfina nel documentario; girato in Calabria, in questo paesino in provincia di Vibo. Giulio era partito con un progetto spericolato, con l’idea di fare un cinema quasi amatoriale. Gli interpreti, a parte Antonio Gerardi, sono presi per le strade del paese. Un film totalmente autoprodotto e autofinanziato, realizzato investendo i suoi guadagni come aiuto regista.
Sono entrato nel progetto quando Giulio ha avuto bisogno di un supporto professionale per le riprese, il montaggio e la postproduzione; perché il film è anche innervato di VFX e effetti speciali. È un film particolare. Si tratta di un film veramente indipendente. Alle spalle non c’è niente di istituzionale se non un piccolo contributo che ha preso come opera di ricerca e formazione, finanziamenti che col nuovo decreto non esistono più.
È un film personale e autoriale. Un prodotto unico che abbiamo fatto rischiando. Ma ci abbiamo creduto fino in fondo. Soprattutto, Labirinti è un film a micro budget e rappresenta un’operazione produttiva sostenibile, uno degli obiettivi di Life Cinema.
