Alla 81° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia arriva il cortometraggio Sette Settimane, diretto da Enrico Acciani, con Nina Nicastri, Cecilia Napoli, Mariapia Autorino, Giglia Marra, Giorgia Remediani e la partecipazione di Giorgio Consoli.
Il film, prodotto da Rocco Anelli per Intermezzo srl, e Roberto Gambacorta per RioFilm srl in associazione con Liminal Space, offre uno sguardo crudo e realistico su una delle questioni più dibattute del nostro tempo: la libertà di scelta di una donna di fronte alla decisione di interrompere una gravidanza.
Con sensibilità e delicatezza, senza cedere a facili moralismi ma focalizzandosi esclusivamente sull’esperienza personale e intima della protagonista, Sette Settimane segue la storia di Luna, una ragazza che lavora in un supermercato, alle prese con una delle scelte più difficili della sua vita. Dopo aver consultato la sua ginecologa, Luna deve decidere se interrompere o meno la sua gravidanza. Attraverso un viaggio interiore che si sviluppa nell’arco di due settimane, il film esplora i pesanti condizionamenti sociali, il senso di colpa e la ricerca disperata di una via che le permetta di preservare la sua autonomia e la sua libertà.

Girato in Puglia, dove è stata ricreata una periferia del Lazio, il film segna il ritorno alla regia di Enrico Acciani, già autore di cortometraggi selezionati al Festival di Cannes (Blasè, La figlia di Mazinga) e del lungometraggio Respirare stanca (2020). «Questo cortometraggio nasce da un racconto che mi ha fatto un’amica» – spiega Enrico Acciani. «Ciò che mi ha mosso è stata la solitudine che questa ragazza ha sentito durante quelle settimane: l’asetticità degli ambienti ospedalieri, la crudezza dei rapporti interrotti, la tenerezza di una madre che ricorda cosa significhi essere una persona libera. Tutti questi elementi sono stati fondamentali per me nella creazione di questo film: una storia intensa, legata a una scelta sofferta, presa con la consapevolezza della propria libertà di donna».
Sette Settimane è un film crudo, la cui fotografia rispecchia il dramma del reale e dello spaccato sociale che la storia comporta. La camera a spalla, ad ottiche strette, i colori acidi e il contrasto che si crea con gli ambienti in cui gli attori si muovono sono elementi fondamentali per trasmettere l’anima di questo racconto.
Con Enrico Acciani abbiamo parlato alla vigilia della presentazione di Sette Settimane.

«In un mondo bombardato dall’informazione di massa costante, ho sentito l’esigenza di raccontare l’introspezione, passando dal racconto del reale»
Sua la sceneggiatura e la regia. Un uomo che racconta un dramma esclusivamente femminile. Al di là della sua reazione ascoltando una storia tra tante, perché ha deciso di occuparsi di un problema che sta riportando le donne italiane nel Medioevo dei diritti civili?
In un mondo bombardato dall’informazione di massa costante, ho sentito l’esigenza di raccontare l’introspezione, passando dal racconto del reale. Ne è venuto fuori un crudo spaccato dell’Italia. Mi ci è voluto un tempo importante per rapportarmi con il tema e avere la certezza che fosse giusto farlo: l’ennesimo uomo che parla di un argomento che sarebbe giusto fosse narrato da una donna è formalmente stucchevole. Poi ho fatto pace con questa cosa perché io non credo nel genere, credo nelle persone.
Oltre al racconto della sua amica, ha sentito altre donne vittime della sanità pubblica quando decidono di avvalersi della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza?
Per il mio film sono partito dal racconto di un’amica: non l’ho sentita per mesi, poi ho scoperto cosa avesse passato. Tutti gli argomenti toccati nel racconto sono attinenti alla storia, altri più studiati e immaginari. Ma quando ho cercato altri punti di vista di ragazze che non conoscevo, la realtà che alla fine si è rivelata è questa: un mondo che ti giudica senza parlare, che ti squadra spesso con indignazione e ti tratta senza la sensibilità dovuta. Spesso vengono fatte domande volte a far cambiare idea, viene instaurato il seme del dubbio. Spero di aver trovato casi isolati, onestamente. Ma ci sono tante storie che emergono, anche di influencer, la cui narrativa è molto simile.
Ha scoperto qualcosa che non sapeva durante questo viaggio verso l’inferno che tante donne affrontano?
Ha detto bene, è un inferno, a partire dall’iter. A livello psicologico ci vuole una grande forza e una tempra che non è detto si debba avere sempre. Anzi. Essere consapevoli del tempo che passa fra una visita e l’altra, un colloquio e la prima pillola è un grande peso per l’anima. Il momento più delicato è prendere atto in quel lasso di tempo di quello che sta accadendo. Ovviamente è un mio pensiero, questo è quello che ho percepito.

«Tutta la crew ha lavorato con abnegazione e spirito di sacrificio per aiutarmi a raccontare questa storia. Sono davvero grato per questo, non ho dovuto rinunciare a nulla e abbiamo lavorato sereni»
In un periodo di censura e autocensura come questo, ha avuto difficoltà nel produrre il corto? Come è stato accolto il suo progetto?
Pensavo che fosse più semplice trovare le location. Ho trovato una certa omertà. Quando sembravano disponibili, a un certo punto raccontavi il plot e magicamente non erano più disponibili. Non pensavo e invece c’è davvero tanta paura nel dire le proprie idee o forse le proprie idee prevedono un’autocensura dell’argomento, non so.
In un Paese dove la televisione di Stato, una volta almeno lottizzata, è ora occupata, quali ostacoli crede dovrà ancora affrontare?
Credo che la parola chiave per rispondere a questa domanda sia “cultura”. Mi permetto di condividere un pensiero che mi sono spesso trovato a fare: più passa il tempo, più sono contento del percorso di istruzione che ho fatto, dei professori che ho incontrato, che mi hanno insegnato negli anni più importanti, quelli della formazione, i giusti valori per poter avere uno spirito critico. Le fondamenta sono importanti in una società democratica come la nostra, se no non ha proprio senso parlarne. Mi auguro che la censura non prevalga mai e che il proposito di una rete di Stato non sia uno strumento di propaganda in mano ad un’oligarchia, ma mezzo di informazione, intrattenimento e cultura di tutti e per tutti.
Leggo che ha lavorato con una troupe under 35. Perché?
Sono un autodidatta in tutto. Ho conosciuto il direttore della fotografia, Vincenzo Petroli, anni fa quando eravamo stagisti e con me ha condiviso sempre un certo tipo di filosofia, certe idee di intendere il cinema in sala e sul set. Così come il mio aiuto regia, Luca Vicano: siamo amici da poco ma dopo una lunga esperienza su una serie abbiamo avuto un ottimo feeling. Abbiamo la stessa età.
Il cinema nei giovani ha perso il senso del lavoro fatto con paura, con nonnismi di vario genere, pur restando una specie di gerarchia militare. Ringrazio la mia troupe a partire dal produttore Rocco Anelli, perché ha creduto in questo progetto: persone come lui salvano questo settore in crisi… perché da quando è stato bloccato il Tax Credit lo è. Tutta la crew ha lavorato con abnegazione e spirito di sacrificio per aiutarmi a raccontare questa storia. Sono davvero grato per questo, non ho dovuto rinunciare a nulla e abbiamo lavorato sereni.

Enrico Acciani su Sette Settimane a Venezia 81: «Spero smuova le anime più cristallizzate sull’argomento»
A quale pubblico si rivolge Sette Settimane?
Sicuramente a un pubblico che vuole ascoltare e che ha la predisposizione e l’attitudine per poterlo fare. Io credo che si possa partire da un pubblico giovane e arrivare fino alle generazioni più lontane per avere un’audience interessata. Spero smuova le anime più cristallizzate sull’argomento, più che altro.
L’Espresso ha raccontato diverse storie di donne private della loro dignità in strutture pubbliche che devono garantire un diritto in un Paese che si spaccia per civile; ma anche di donne che hanno trovato il loro nome scritto su croci in cimiteri di feti, senza rispetto per la loro riservatezza o la loro religione. Molte le regioni dove gli integralisti cattolici hanno bypassato la legge grazie a obiettori di coscienza che, di fatto, impediscono l’applicazione della 194. Come si è districato tra così tante mine nel terreno di una società sempre meno civile?
Grazie per questa domanda. I problemi più importanti li ho trovati in fase di scrittura. Il film aveva un altro titolo, un’altra impostazione sulla comunicazione ed è cambiato, per me in meglio, maturando, durante la preproduzione.
Conscio del mondo in cui viviamo, durante questi giorni, ho cercato di indorare la pillola e rendere il messaggio per quello che era: un racconto sensibile e delicato, nel vortice di una tempesta di spilli. Non voglio fare paragoni azzardati, ma è un po’ come Lucrezio nel De Rerum Natura, il miele e l’assenzio.
Quanto è urgente dare spazio al cinema indipendente? Quanto il cinema indipendente può rappresentare una forma di resistenza?
Non sono la persona adatta a rispondere forse perché di parte. Io come utente mi nutro di questi film e, pur guardando quanto più possibile di quello che viene prodotto, alla fine scelgo sempre quelli indipendenti e sperimentali. Il cinema per me è sempre la risposta, soprattutto in questo periodo. Un mio mentore diceva che lo schermo della sala è elastico e sopra ci rimbalzano le idee. È vero. Ma anche le menti devono sempre essere elastiche, quindi è inutile che siano sempre le stesse ad andare in sala. Anche perché chi va in sala più ormai? È l’argomento del mio prossimo lavoro, che si chiamerà Titoli di Coda; l’ho scritto in tempi non sospetti, nel marzo del 2021.
Il vero goal è riportare le persone in sala e non guardare più soltanto dal tablet. Forse è un’utopia, ma parte tutto da qui.

