Presentato alle Giornate degli Autori alla Mostra del Cinema di Venezia, Sudan, remember us di Hind Meddeb è una lettera d’amore al Paese.
Sudan. Ma dov’è il Sudan? In una parte di mondo che tanti di noi chiamano semplicemente Africa, senza distinguere uno Stato dall’altro, antico quanto l’uomo, con tante storie quanti i granelli di sabbia di un fiume, il Sudan è uno di quei Paesi martoriato da una guerra dimenticata.
In un Sudan dilaniato da anni di conflitti e carestie, il documentario Sudan, remember us ci immerge nella lotta quotidiana dei giovani sudanesi. Le loro storie, strazianti e stimolanti, ci ricordano la capacità di trovare speranza anche nelle circostanze più buie. Sudan, remember us è un richiamo all’attenzione su una crisi dimenticata e un tributo al potere della creatività come strumento di sopravvivenza e resistenza.

Sudan, remember us racconta la situazione del paese attraverso la voce dei giovani
Shajane, Maha, Muzamil, Khatab. Sono giovani attivisti sudanesi, desiderosi di libertà. Dalla caduta del dittatore Omar Al Bashir all’attuale guerra che sta devastando il loro Paese, in un arco di tempo che va dal 2018 al 2023, il documentario ricompone i frammenti della loro rivoluzione, una battaglia impari che contrappone le voci dei giovani alla forza dei militari.
Sudan, remember us è la storia di un sogno: «Quando mio padre era ancora in vita mi raccontò il suo sogno di un mondo arabo scosso da una rivoluzione femminista», dice una delle ragazze che a distanza di anni lascerà il Sudan per trovare rifugio all’estero.
E, per certi versi, sembra anche una favola: il racconto di un’umanità meravigliosa in quello che è uno dei sette “Stati canaglia” per il Governo statunitense. Il Paese che diede asilo a Bin Laden quando fu costretto a lasciare l’Arabia saudita.
«Abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno, abbiamo fabbriche, ogni sorta di minerali; abbiamo diamanti, oro, uranio» racconta un giovane sudanese nel periodo del sit-in. Soprattutto il Sudan produce milioni di barili petrolio al giorno, cosa che fa dimenticare il terrorismo, le repressioni dei civili, l’applicazione della sharia, la fame, la povertà, la riduzione in schiavitù. E una serie interminabile di dittature militari, di guerre civili e religiose tra cristiani e musulmani che si protrae dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1956.
«L’imam in moschea parla di povertà mentre lui indossa abiti costosi e firmati; mentre la gente nella moschea è povera l’imam predica principi morali e dice che rubare è sbagliato, ma lui è il più corrotto di tutti. Non lo chiamo un uomo di religione, lo chiamo un mercante di religione» – dice una attivista.
Già, perché il documentario di Hind Meddeb è pieno di voci femminili. «L’imam dice che la voce delle donne è un tabù, ma all’assemblea del Congresso nazionale le donne hanno il diritto di gridare che Dio è grande. Quando chiediamo i nostri diritti, perché la nostra voce deve essere un tabù? Perché stiamo dicendo la verità. Stiamo prendendo consapevolezza del nostro valore».

«I proiettili non uccidono, quello che uccide è il silenzio della gente»
Dignità: ecco una parola che ricorre spesso nelle dichiarazioni dei giovani che hanno preso parte al documentario. «Noi siamo sudanesi!» gridano e cantano spesso i ragazzi. «Vogliamo trasferire il potere al governo dei cittadini». Lo sguardo di Hind Meddeb ci restituisce un’idea di democrazia e diritti civili che, almeno in Italia, non associamo “all’Africa”, questo grande buco nero da dove arrivano migliaia e migliaia di profughi.
«Hai paura? Non adesso. I proiettili non uccidono; quello che uccide è il silenzio della gente. Non ci arrenderemo. La paura non è tra noi. I miei diritti non contano se tutti quanti non abbiamo gli stessi diritti». Così parlano attivisti e attiviste sudanesi. «Quando usciamo a manifestare non sappiamo se torneremo a casa. Puoi essere arrestato o ucciso da un proiettile. Qualsiasi cosa può accadere.
C’è anche la tortura psicologica. Vogliamo che i nostri soldati tornino dalla guerra in Yemen, che il Governo si sleghi dagli Emirati Arabi, dall’Egitto e che ci lascino in pace a vivere in democrazia. Vogliamo il governo dei cittadini».
Poi l’ultima notte di Ramadan del 2019. «Questa è la prima volta che ho avuto paura. Internet e le linee telefoniche sono state tagliate. Non abbiamo notizie. Dalla mia finestra vedo una città morta. Il paese è cambiato come una prigione all’aria aperta». «Questa volta gli arresti sono avvenuti in segreto. I nomi non sono stati comunicati, non c’è modo di trovarli». «Non posso credere a quello che è accaduto: la gente che era al sit-in è stata bruciata mentre dormiva. Quanti morti, quanta gente scomparsa, quante famiglie decimate: nessuno lo saprà mai. Le milizie hanno attaccato a sorpresa al sit-in. Perché hanno scelto l’ultima notte di Ramadan?»

«I miei diritti non contano se tutti quanti non abbiamo gli stessi diritti»
Hind Meddeb affida il suo racconto dalle immagini, alle voci e alla musica. L’arte è un fil rouge che corre lungo tutto il documentario: l’arte degli street artist che dipingono le immagini dei poeti delle rivoluzioni sudanesi («La storia del Sudan è una storia di resistenza. Questa rivoluzione non è la prima. È la terza rivoluzione in Sudan. In Marocco diciamo: la terza volta è quella fortunata», racconta una giovane donna), ma anche la musica: quella delle canzoni ancestrali del popolo sudanese e quella dei rapper. «Da quando gli occhi si sono aperti sulle ingiustizie, il mio rap è esploso. Possono i leader religiosi governare il Paese? Le mie parole sono più armate delle pietre e dei fucili, il mio unico potere è nelle parole», canta uno di loro.
E sono sempre canzoni che parlano di libertà e democrazia. Di un mondo migliore, di un governo della gente comune. «I giovani sono stati colpiti nell’anima e nel corpo. In prigione cantavamo tutte le sere. Rabbia, paura, terrore, tortura: eravamo uniti nella sofferenza. La prigione ci ha reso più forti, ha reso la nostra amicizia più stretta e rafforzato il nostro desiderio di cambiamento».

Sudan, remember us è il racconto di giovani uomini e giovani donne che hanno provato a lottare per un governo dei cittadini, che hanno seguito i loro sogni; che cantano di un mondo dove non ci sono vincitori e vinti, ma cittadini e cittadine che hanno camminato insieme. Un racconto di attivisti, street artist, rapper, poeti: «Ho lasciato questo mondo troppo presto, la strada è ancora lunga, mi mancano i miei amici, ma noi abbiamo fatto un patto: ricordatemi quando la vittoria arriverà, ricordatemi quando il paese verrà ricostruito, ricordatemi quando piantate un albero».
3 giugno 2019: Grida e spari. «Governo dei militari o dei cittadini? Governo dei militari! Se dici governo cittadini ti uccido! Devi dire governo militare!»
Oggi il Sudan è inghiottito dalla violenza tra fazioni complesse, con attori esterni che competono per ottenere il controllo delle risorse naturali del Paese.
Dal 2018 al 2023 oltre 12,7 milioni di sfollati, oltre 19.000 morti. Ma il Sudan non fa più notizia. Si dice che non esistono terre pure o terre impure di per sé, che tutto dipende dalla bontà o dalla malvagità del cuore di chi le abita. Molti di quei ragazzi non abitano più lì, uccisi o espatriati. Altri cuori sono rimasti in un Sudan devastato. Ma… «ricordatemi quando il paese verrà ricostruito, ricordatemi quando piantate un albero».
