Vakhim è il film documentario di Francesca Pirani, presentato alle Notti Veneziane, spazio off delle Giornate degli Autori, in collaborazione con Isola Edipo, durante la 81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Prodotto da Luca Criscenti per Land Comunicazioni, Vakhim è un racconto potente che affronta la storia intima e personale della regista Francesca Pirani. Adottato in Cambogia a quattro anni, Vakhim arriva in Italia nel 2008. Parla solo khmer e tutto intorno a lui è sconosciuto.
Con Vakhim Francesca Pirani, regista e sceneggiatrice che ha collaborato con Marco Bellocchio, apre le porte del suo vissuto e racconta la storia di suo figlio, in un documentario in cui risuonano temi come il dramma delle separazioni, la perdita degli affetti, il rapporto genitori figli, la difesa della memoria e dell’identità culturale.
«Il film sembra nascere da subito, da quei primi girati familiari che tanti di noi conservano per non perdere i ricordi. Volevo che Vakhim avesse ricordi di quando ancora parlava Khmer – racconta Francesca Pirani – Mi avevano detto che questi bambini perdono la lingua madre nel giro di pochi mesi. Volevo che gli rimanessero dei ricordi quando sarebbe diventato grande. E la cosa bella è che veramente sembra che nasca tutto fin dall’inizio».

«Nel docufilm ho accennato come, dopo anni, abbiamo scoperto come le madri vengono ingannate, dicono loro che poi rivedranno i loro figli… in realtà tutti i soldi che uno manda a questi istituti vengono rubati dai direttori; motivo per cui l’Italia ha interrotto le adozioni in Cambogia»
Perché un’adozione in Cambogia?
In Italia l’iter è molto lungo: abbiamo impiegato due anni e mezzo. Ci siamo dovuti sposare, altrimenti non puoi adottare. Poi inizia l’iter con i servizi sociali. Quando ti danno l’idoneità all’adozione, tu dai un mandato a un’associazione abilitata dal Tribunale Minori. Alcune sono abilitate a portarti negli istituti all’estero. Ognuna, e ce ne sono tantissime, ha istituti in alcuni Paesi. Noi le abbiamo contattate già mentre completavamo l’iter, per capire com’era il mondo delle adozioni.
Abbiamo capito che alcuni Paesi erano da evitare: ci sono situazioni spaventose e i bambini arrivavano con problemi enormi, vittime di abusi e maltrattamenti o devastati dalla guerra.
Siamo andati per esclusione. Ma è stata un’avventura. Ti trovi in situazioni assurde. Nel 2008, quando siamo partiti, c’erano tante adozioni disponibili in Vietnam e in Cambogia, e così è stato.
Cercavamo un posto dove i bambini, seppur poveri, fossero trattati con affetto, dove ci fosse un tipo di cultura accogliente. Da alcune zone arrivano minori che ne hanno viste di tutti i colori, con culture molto fredde con i bambini, e poi arrivano con problemi psichici importanti. Ho visto tanti fallimenti adottivi di bambini che tornano in casa famiglia in Italia o che prendono le psicofarmaci. Ecco perché abbiamo scelto la Cambogia.
In una scena si vede una delle Suore Missionarie della Carità, l’ordine fondato da madre Teresa di
Calcutta. Vi siete rivolti a loro?
No, quello è il momento in cui ti affidano i bambini. Una famiglia aveva adottato tramite le suore di madre Teresa. È in un posto che non c’è più, quello dei bambini poveri lo chiamavano, come non fossero poveri pure gli altri. Però, mentre le suore hanno una loro etica, molti altri istituti sono abbastanza loschi.
Nel docufilm ho accennato come, dopo anni, abbiamo scoperto come le madri vengono ingannate, dicono loro che poi li rivedranno… in realtà non è così; motivo per cui l’Italia ha interrotto le adozioni in Cambogia.
In India le suore di madre Teresa furono coinvolte in uno scandalo di compravendita di neonati.
Nel giugno del 2023 è stata presentata da parte di organizzazioni internazionali, una
dichiarazione congiunta tra Italia e Cambogia per la non riapertura delle adozioni internazionali…
Evidentemente hanno visto che non ci sono ancora le garanzie. Francesi e americani continuano, hanno una regolamentazione più libera. Accadono cose assurde: ti dicono che arriva un bambino che non ha fratelli oppure che è orfano, ma non è vero niente.
Tu devi avere il nulla osta per l’adozione, loro fanno un abbinamento e una proposta. Noi avevamo la foto del bambino. Tanti anni fa la gente partiva, andava in Paesi come la Russia, sceglieva i bambini, ne prendevano uno o due, ma oggi non è più così.

«Volevo solo raccontare una storia sulla perdita della propria memoria, del proprio passato e sul suo ritrovamento»
Nel film passate dalle campane tibetane all’albero di Natale. È un grande salto culturale. Avete utilizzato un mediatore culturale?
In Italia non ci sono cambogiani. Non esistono ristoranti, persone, non c’è l’ambasciata, solo un console onorario a Milano. Non è come a Parigi, dove uno avrebbe potuto trovare dei connazionali, anche per capire cosa diceva quando pregava. Qui non è stato possibile.
Quando ho fatto il film ho conosciuto a Phnom Pen una persona che ci accompagnava, che parlava italiano perché da piccolo il padre, fuggito dalla Cambogia al tempo dei khmer rossi, aveva vissuto nel nord Italia per 30 anni e poi era tornato a vivere lì. Ma è un caso raro in Italia. Il cambogiano non viene neanche insegnato all’università: se vuoi imparare Khmer devi andare a Parigi. Per fortuna i bambini imparano prestissimo. Dopo pochi mesi ci capivamo.
Come ti sei sentita quando hai scoperto che Vakhim faceva parte dei bambini adottati senza il consenso delle madri? E che eri anche tu finita nello scandalo delle adozioni in Cambogia?
Dopo quasi 9 anni è arrivata una prima lettera, poi una seconda dalla Cambogia. A un certo punto i genitori degli altri fratelli e dei cugini mi hanno chiamato… perché abbiamo scoperto che anche i cugini sono stati adottati in Italia… Io avevo fatto dei filmati molto lunghi per lasciare delle testimonianze a Vakhim della sua vita in Cambogia, e tramite i miei filmati abbiamo non solo ritrovato i quattro fratellini ma anche i cugini, e anche altri bambini hanno a loro volta trovato fratelli e sorelle in giro per l’Italia. È stata una cosa apprezzata.
Abbiamo capito che li avevano divisi tutti. I cambogiani li dividevano per darli via più velocemente. Poi abbiamo visto andare in onda la storia di questi bambini, che era anche la nostra storia mischiata alle altre. C’è un’intervista alla madre naturale con un bambino piccolo in braccio, che piange, si dispera, racconta che lei si è pentita. Tra tutte le madri coinvolte nella vicenda, la foto che girava era la sua con i quattro bambini adottati in Italia.
In realtà è stata la conferma a sensazioni che avevamo. I resoconti dalla Cambogia erano spesso diversi: genitori malati che danno in adozione, poi sono saltati sulle mine, sono partiti per andare a lavorare all’estero e li hanno abbandonati. Ecco perché l’Italia ha chiuso le adozioni.

Quanto c’è di non raccontato nel docu?
Niente. Non si fanno nomi, ovviamente. Abbiamo parlato con persone, col console, ma io non stavo facendo Report della Gabanelli, non era un film di inchiesta.
Volevo solo raccontare una storia sulla perdita della propria memoria, del proprio passato e sul suo ritrovamento. Per gli aspetti giudiziari non c’era spazio e, in ogni caso, l’obiettivo non era quello di accusare qualche organizzazione o i tribunali dei minori.
Vi siete sentiti tutelati dallo Stato Italiano o lo Stato Italiano se ne lavava le mani?
No, se ne lavavano le mani. Volevamo solo una mediazione, che ci aiutassero a mandare del materiale a questa madre, a rassicurarla. Speravamo di non dover essere soli, ma questo non lo fa nessuno: né le organizzazioni né lo Stato. Non c’è l’ambasciata. Non ci ha aiutato nessuno nessun tribunale; volevamo essere tutelati, capire a cosa andavamo incontro, che cosa potevamo fare.
Sono stati anni assurdi. Legalmente eravamo protetti, ma un caso internazionale richiama l’attenzione dei media e i ragazzi erano ancora tutti minori. Alla fine erano sei tra fratelli e cugini.
Abbiamo fatto gruppo, cercato di capire come affrontare la cosa. Non eravamo soli perché eravamo un grande gruppo familiare.
E anche per la realizzazione del film, siamo partiti da soli, ci ho messo i soldi io. È un film di totale solitudine: un vero film indipendente.

Gli assistenti sociali sono stati di supporto?
Con noi sono state brave. A volte ti consigliano cose con poco senso. A un certo punto mi hanno detto: fai vedere a Vakhim le riprese della Cambogia o se la dimentica. Quando le ha viste è impazzito: ha cominciato a gridare, si è spogliato nudo, faceva l’ubriaco. Ho detto basta. Lui per anni non ha voluto vedere nessuna foto della Cambogia. Così come quando dissero che non poteva andare all’asilo; era da solo, in una casa, con adulti, d’inverno. Ho detto: io ci provo a mandare a scuola un bambino che è vissuto sempre in mezzo ai bambini; non me ne importa niente dei consigli, se poi vedo che ha delle difficoltà me lo riporto a casa. È andata benissimo.
Perché hai scartato un’adozione nazionale?
Perché al Tribunale dei Minori di allora mi dissero di lasciar perdere. Sono bambini che stanno in casa famiglia, con storie difficili alle spalle; ci sono i genitori o i parenti che interferiscono. Poi sono a rischio giuridico, nel senso che per un anno possono anche riprenderli. Anche se adotti bambini lasciati da donne straniere, senza nessuno, di 7/9 anni, sicuramente sono bambini con delle storie molto dolorose alle spalle e quindi sono minori difficili. Se magari hai già dei figli e dici ne voglio un altro, anche come atto umanitario, puoi anche farlo. Ma nel nostro caso era diverso.
Ho visto altre persone che hanno adottato con l’adozione nazionale e hanno avuto delle storie molto difficili.
