Antonio Marras

Milano Fashion Week Donna Autunno Inverno 25/26: Antonio Marras e l’epica sartoriale di un melodramma tessile

Al centro della narrazione del designer c'è il melodramma dimenticato La Bella d'Alghero, che Marras riscopre e rilegge attraverso la sua lente visionaria

C’è un certo pathos, un languore operistico che attraversa la collezione Autunno Inverno 2025 2026 di Antonio Marras, come un’eco di Bizet e Mascagni che si fa tessuto, gesto sartoriale, incisione materica. La passerella si trasforma in un palcoscenico, dove la moda diventa drammaturgia e ogni abito un’aria che racconta amori e tradimenti, sospiri e furore.

Al centro di questa narrazione, il melodramma dimenticato La Bella d’Alghero, che Marras riscopre e rilegge attraverso la sua lente visionaria. Un’opera seria, certo, ma anche una pièce di esistenze sospese tra dovere e passione, tra radici e desideri. Sullo sfondo, l’Alghero delle notti ventose e della pietra dorata, la Catalogna riflessa nelle onde, un ponte di sangue e memoria che si ricostruisce attraverso il filo della couture.

La collezione Autunno Inverno 2025 2025 di Antonio Marras

La collezione sussurra e declama, alterna momenti di rigore e di barocco: il gessato si fa lirico, il damasco diventa frammento di un’aria perduta, il velluto parla di notti clandestine. I tessuti si sovrappongono come voci in un coro: broccati e tulle, twill di seta e jersey operato, in una costruzione stratificata che sfida il concetto di silhouette. Le linee, infatti, oscillano tra la sartorialità austera e l’extravaganza del costume teatrale, tra il fit scultoreo e il gesto massimalista.

Ma è nella lavorazione che Marras compie il suo atto più radicale: applicazioni, ricami, inserti patch, segni e schizzi quasi calligrafici che sembrano voler riscrivere la trama stessa dell’opera. Le rose, leitmotiv visivo, non sono mai ovvie: ora fotografiche, ora floccate, ora accennate come un’ombra su un sipario polveroso.

Un’estetica teatrale e fuori dal tempo

Non è solo un omaggio alla memoria, ma un atto di riscoperta, un’archeologia emotiva e tessile. L’intervento diretto del designer – pennellate, segni, schizzi – trasforma ogni capo in una partitura visiva, come se Marras stesso fosse un direttore d’orchestra, un demiurgo capace di far cantare la stoffa. “Mi appassiona dar voce a cose apparentemente mute, perché diventino abiti che parlano”, afferma. E qui parlano eccome: raccontano amori impossibili, destini spezzati, un’epica privata fatta di sacrifici e passioni sfrenate.

L’allure teatrale si completa nei beauty look, che evocano un cast di personaggi fuori dal tempo, sospesi tra l’evanescenza di un sogno e la crudezza della tragedia.

Marras, ancora una volta, non disegna solo moda, ma affreschi di memoria e desiderio, tensioni irrisolte che prendono forma nel tessuto. E come in ogni vero melodramma, alla fine resta l’eco del coro: Orror!, sussurrato tra le pieghe di un taffetà in caduta libera.